ARZELLO è una piccola frazione del Comune di Melazzo che sorge sulla riva orografica sinistra del torrente Erro, all'imbocco dell'omonima valle. Situata su un'ampia piana a vocazione prevalentemente agricola è circondata da verdi colline ricche di storia e tradizioni. Sulle colline a destra dell'Erro domina dall'alto Melazzo con il suo poderoso castello mentre su quelle a sinistra vigila, su una, l'antica Torre di Castelletto d'Erro e , sull'altra, i resti del Castello di Moncrescente che, per la leggenda popolare è meglio conosciuto come "La Tinassa".
Può essere meta di scampagnate anche di sola mezza giornata e di soggiorni prolungati per chi ami la tranquillità della campagna e la frequentazione di paesaggi incantevoli e rilassanti ingentiliti da preziosi monumenti artistici dei secoli passati che oggi sono oggetto di visite guidate e di escursioni tonificanti adatte a qualunque età. Nella stagione estiva il torrente Erro offre in località Giardino possibilità di balneazione alternativa alla piscina della vicinissima Acqui Terme.
Cenni Storici
Melazzo ,da melas (oscuro, forse per la fitta boscaglia del territorio del Basso Monferrato) , o da melum ( luogo coltivato a meli) ha radici remote , legate alla fondazione di Acqui da parte dei Liguri nel VII secolo a.C.; i Romani latinizzarono il nome in Meladium.
Poco si conosce dell’epoca romana se non che il territorio era percorso da un cunicolo che portava le acque del torrente Erro all’ acquedotto romano di cui restano visibili tracce ad Acqui Terme.
Nella tarda età imperiale , di decadenza e di invasioni, nella piana vicino al torrente Erro è eretta la Pieve di San Bartolomeo, cui subito si aggiunsero l’hostaria ed un molino, di utilità strategica per le esigenze degli abitanti. Nel borgo nacque intorno al mille Guido dei Conti d’Acquesana (divenuto vescovo di Acqui nel 1034, morto nel 1070 e successivamente proclamato Santo), che provvide ad emancipare i contadini dalla servitù di gleba ed avviò, intorno al castello di proprietà famigliare, la costruzione di nuove abitazioni. L’attuale concentrico in collina è sviluppato a partire dal 1500, dietro erezione della nuova chiesa di santa Croce con funzione di parrocchiale.
Governato dai Conti di Acquesana, dagli Aleramici e dai Marchesi di Ponzone, poi del Monferrato e di Mantova e dal 1708 dai Savoia,.Melazzo si diede gli ’Statuta oppidi Meladii’ applicati dal 1655 che prevedevano la legge del taglione, il divieto di lavoro di domenica, il gioco d’azzardo, il ‘diritto di rappresaglia’ in caso di furto o danno. Fu terra di contadini coltivatori di meliga, grano, castagne bianche e allevatori di bachi da seta ,e di artigiani. Come informano gli statuti, i Melazzesi furono sarti, beccai e macellai, calzolai, fabbri, barbieri capaci di far salassi, notai. La popolazione, che ai primi del 1600 era di 1500 persone , fu drasticamente ridotta dalla pestilenza del 1630, tanto che nei registri parrocchiali manca persino l’elenco dei deceduti, a testimoniare il disordine che tale evento determinò persino nelle attività burocratiche normali.
Nel 1807 il borgo fu ascritto al Dipartimento di Cairo Montenotte in seguito alla divisione politica effettuata da Napoleone nell’Italia conquistata dalle armate della Repubblica francese. Fu, come tutto l’Acquese, terra di pesanti requisizioni ed imposizioni fiscali; subì violenze, saccheggi e gravi danni anche nei passaggi delle armate austro-russe e cosacche.Con la restaurazione dei Savoia, Melazzo tornò ad essere il tranquillo paese agricolo che per tanto tempo era stato ed i Melazzesi parteciparono in prima persona alle tappe che portarono all’unificazione politica della penisola.
Da vedere ad ARZELLO:
PIEVE di SAN SECONDO di ARZELLO
La chiesetta di S. Secondo è raggiungibile da Arzello procedendo sull’unica strada carrozzabile fino che la stessa non diventa sterrata. Solitaria sulla piana del torrente Erro appare l’antica costruzione di S.Secondo. La chiesetta romanica dell ’XI secolo si trova in prossimità di un antico guado sull’Erro raggiungibile seguendo la strada sterrata, fin sotto la parete rocciosa che si erge in sponda sinistra.In antichità doveva trovarsi, quindi, in un punto di transito lungo la direttrice che si snodava da Castelletto d’Erro e Melazzo.L’edificio, già Pieve succursale di San Bartolomeo, si presenta a corpo unico con campanile poco elevato con navata unica, ampia, illuminata da tre monofore ed una bellissima abside semicircolare in conci di pietra. La facciata, semplice, è molto rimaneggiata; possiede due finestrelle quadrate ai lati del portale, a sua volta sormontato da apertura circolare. Purtroppo poco si sa circa la storia della chiesa di S. Secondo.
In questa zona è facilmente raggiungibile un'ampia area sulle rive dell'Erro meta estiva di numerosi gitanti e bagnanti.
CASTELLO di MONCRESCENTE (Tinassa)
Sulla sponda sinistra del torrente Erro, proseguendo oltre Arzello, per la sinuosa strada che conduce a Castelletto, si imbocca, prima della salita, il sentiero che conduce a destra a Moncrescente, poggio da cui si ammira uno splendido panorama ed un antico castello dell’XI secolo, ormai in rovina, dalla pianta ottagonale seminascosto dalla vegetazione, dalla forma simile ad un recipiente per il vino, che gli ha valso il nome dialettale di "tinassa", cioè "tinozza". Avvicinandosi a Moncrescente è inevitabile notare le sue imponenti torri che si stagliano contro il cielo, le arcate e le alte mura che fanno pensare alla maestosità che doveva possedere un tempo la costruzione, sita in un luogo strategico, dominante il bacino dell'Erro e della Bormida. La prima caratteristica interessante di questo edificio è certamente la pianta ottagonale, tipica delle costruzioni appartenenti ai Cavalieri Templari, il noto ordine di monaci guerrieri che aveva documentati possedimenti nei dintorni, come la mansione di Acqui Terme e di Ponzone. La costruzione del recinto di Moncrescente, sulla base dell'evidenza architettonica e delle più precoci attestazioni documentarie, risalirebbe alla prima metà del XIV secolo ma il sito venne già occupato in precedenza da una fortificazione, testimoniata dalla base in pietra di una torre quadrata databile al XII-XIII secolo. La destinazione di Moncrescente era prevalentemente militare: essa doveva ospitare un discreto contingente di armati, ma fu utilizzata per un breve periodo di tempo, risultando già in disuso alla metà del Cinquecento. Il precoce abbandono e la posizione isolata hanno permesso la conservazione della fortezza nelle sue fasi originali trecentesche, non alterate da modificazioni successive: sono ancora visibili vari dispositivi legati alle esigenze difensive del castello (feritoie e sistemi di chiusura dell'ingresso), ma anche alcuni elementi legati alla vita quotidiana di chi soggiornò in questo luogo (cisterne per l'acqua e ben cinque latrine).
L'edificio, oggi in stato di abbandono, è comunque visitabile anche se a proprio rischio e pericolo, in quanto le mura presentano profonde crepe che, se non si provvederà presto ad un intervento di restauro e consolidamento, fanno supporre che la costruzione possa crollare prossimamente. La crepa più evidente, che taglia nettamente un'intera parete, però, non è dovuta al decadimento, ma ad un fulmine che colpì la costruzione durante un terribile temporale estivo. Dentro al recinto, il terreno è ancora più incolto: sterpaglie, terriccio, vegetazione sparsa. Si sente come un senso di ovattamento. Accanto al castello si trova una casa ora diroccata e dall'aspetto piuttosto tenebroso che fino a non molti anni fa era abitata da una famiglia di mezzadri.
Alla forma del castello è legata la leggenda della Tinassa.
Che il maniero continui ad essere stato prediletto da sedicenti maghi e teatro per culti neopagani è stato testimoniato da un ben informato e loquace signore del luogo: tempo fa ha dovuto segnalare all'attuale proprietario del bosco in cui sorge la Tinassa la presenza periodica e costante di parecchie persone, che non sembravano semplici turisti, visto che le loro visite erano principalmente notturne. Così, una notte, il proprietario ha deciso di andar a controllare che cosa stessero facendo, a quanto pare non intimorito dal possibile incontro con seguaci del diavolo. Ha così visto un gruppo di persone in cerchio che bruciavano un fantoccio di paglia: un rito pagano in piena regola, che potrebbe proprio essere ispirato a riti celtici: di purificazione, feste del Fuoco, come Beltene, poi diventata Calendimaggio.
Esiste anche un’antica tradizione orale secondo la quale il castello era collegato a quello di Melazzo da un passaggio sotterraneo, costruito per difesa e strategia militare. Di tale passaggio sembra esistono ancora alcune tracce sia presso la fortezza del Moncrescente sia nei sotterranei del castello di Melazzo.
Da vedere a MELAZZO:
IL CASTELLO
La struttura
Situato al centro del paese, occupa una superficie di circa 7000 mq., di cui 6100 di parco.
Della costruzione originaria restano gli imponenti bastioni di cinta, che delimitano il parco al centro del quale sorge il complesso abitativo. L’edificio, a due piani oltre il pianterreno, con una torre centrale più alta coincidente con l’ingresso principale, possiede oggi 35 stanze edificate a partire dal XVI secolo su un preesistente impianto di casa fortificata. a torre è caratterizzata da finestre ad arco, da bifore e da un coronamento di archetti sospesi, in laterizio. L’interno è abbellito da volte a crociera nel piano nobile e da coperture con archi a tre cerniere al piano terra ed al secondo piano.
La pavimentazione è realizzata con le ‘piastrelle di San Guido’, ovvero mattonelle rettangolari dell’XI secolo provenienti dalla fornace che i conti d’Acquesana possedevano in località Caliogna.
Una pregevole galleria che si conclude con un balcone in pietra del ‘600 permette la visione di uno stupendo panorama sulla valle dell’Erro.
La sua storia
Il Castello custodisce un passato denso di avvenimenti e di presenze antiche, che ancora affascinano i visitatori. Le origini del maniero risalgono al secolo XI, quando Melazzo era feudo imperiale dei Conti d’Acquesana, da cui nacque Guido divenuto vescovo d’Acqui nel 1034 e proclamato dopo la morte, Santo Protettore della Diocesi Acquese, cui donò Melazzo ed il Castello.
Nel XIII secolo il castello fu occupato dagli Alessandrini in guerra con Acqui; fu restituito solo cinque anni dopo. Occupato una seconda volta dal podestà d’Acqui, Azzone, scomunicato per questo dal Vescovo, dimostra quanto ambito fosse il maniero per la collocazione strategica sulla valle Erro e della via verso Savona. Nel corso del trecento il Vescovo lo affidò a Oddone, Marchese di Ponzone; passò in seguito ai Marchesi del Monferrato e diventò residenza di nobili signori infeudati dagli stessi marchesi.
Nel Rinascimento signore del Castello fu il Conte Falletti, dell’omonima grande famiglia di banchieri astigiani, sposato con la nobildonna Eleonora della Croce.
La proprietà del Maniero passò nei secoli seguenti ai Gandolfi e, per parentela, ai Roberti, benché già alienato il feudo e spogliato di ogni diritto. A fine settecento Carlo Emanuele IV lo concedette ai Conti Tarini; da metà ottocento passò al Cavalier Emilio Calosso di Torino, nipote del Tarini e, nel 1861 fu venduto all’asta divenendo proprietà dei signori Arnaldi di Genova che a Melazzo avevano anche altre proprietà: la Cascina Bianca e terre in regione Preisi.
A fine ottocento si impose, attraverso il reperimento di documenti specifici, la versione storica secondo cui soggiornò nel castello di Melazzo il re d’Inghilterra Edoardo II Plantageneto sfuggito, travestendosi da custode del proprio castello, ai sicari della moglie Isabella di Francia e riparato in Italia dove morì due anni dopo a Butrio nell’Appennino pavese.
A ricordo della presenza del re oggi si può leggere nella galleria dell’edificio una lapide commemorativa.
Nel 1911, dopo essere stato aperto come asilo infantile, il castello fu acquistato dal Conte Cesare Chiabrera Castelli, il cui casato gentilizio risale al XIII secolo, al quale si deve il restauro conservativo della struttura con l’eliminazione del torrione centrale con le bifore e della torre cilindrica , entrambi cadenti e pericolosi.
Nel punto in cui poggiava una delle torri abbattute, un avvallamento e l’accesso ad un sotterraneo con scala elicoidale, avvalorano l’antica tradizione orale secondo la quale il castello era collegato al Moncrescente da un passaggio sotterraneo, costruito per difesa e strategia militare.
Di tale passaggio esistono ancora tracce presso la fortezza del Moncrescente e nei sotterranei del castello melazzese.
Il parco del castello, divenuto dimora signorile sontuosa e finemente arredata per merito dei Chiabrera, possiede numerosi alberi d’alto fusto che si accompagnano ad una gigantesca sequoia adattatasi al clima di queste latitudini.
Passato nel 1936 in proprietà del cavalier Maggiorino Dagna, nipote dell’allora ministro delle Poste Maggiorino Ferraris, ed utilizzato solo come residenza estiva, durante la II guerra mondiale fu requisito dai Tedeschi che vi installarono il comando militare di zona. Fu anche in seguito proprietà dei Dagna, divenendo a fine guerra sede dell’Istituto ‘Alexandria’ destinato ad accogliere orfani di caduti in guerra.
Passato in proprietà dell’esercente Guido Rapetti, il castello divenne ristorante. Dal 1968 è proprietà della signora Franca Pesce.
CHIESA di SAN BARTOLOMEO
Edificata proprio al centro del paese, la Parrocchiale di San Bartolomeo risale alla metà del 1700 quando, sulle rovine dell’antica chiesa di Santa Croce fatta erigere da San Guido ed un tempo subordinata alla Pieve di San Bartolomeo, si diede un edificio di culto monumentale ed artistico al paese.Lo stile che la caratterizza è il rinascimentale, arricchito da ornamentazioni in stucco baroccheggianti.All’interno custodisce preziose antichità quali il quadro della Madonna del Rosario, attribuito a Guglielmo Caccia detto il Moncalvo e risalente al ‘600, gli affreschi del Muto ed un quadro su San Luigi di Rodolfo Morgari.Pregevoli sono gli arredi lignei in noce massiccio come i banchi ed i confessionali, ed inoltre il bancone per le messe solenni e la scala del pulpito costruiti dallo scultore melazzese Angelo Bergolino nel secondo ottocento.La Chiesa custodisce le spoglie di alcuni autorevoli esponenti del casato Scati-Grimaldi , insigne anche per la speciale protezione e benevolenza mostrata verso il paese.
ORATORIO di SAN PIETRO MARTIRE
La navata unica, ampia e ben illuminata da finestrature laterali, contiene pregevoli oggetti artistici, quali lo schienale in perfetto barocco piemontese di fine ‘700, la statua del Santo dello scultore genovese Drago, il crocefisso restaurato negli anni trenta, due quadri del pittore Garelli, di fine ottocento.Annesso alla parrocchiale, l’Oratorio fu sede della Confraternita dei Disciplinati aggregata, con decreto del 1589, alla Confraternita della Trinità in Roma.La Confraternita era costituita da un gruppo di persone che attraverso la preghiera , il canto e l’uffizio glorificavano Dio, la Madonna ed il santo Patrono, partecipando alle funzioni solenni ed alle processioni e, dopo il Concilio di Trento, aiutando il parroco nell’attività di catechesi.I Confratelli raccoglievano il grano, lo vendevano, preparavano focacce da distribuire durante la settimana Santa, amministravano entrate ed uscite del gruppo attraverso la collaborazione di un priore, che teneva la contabilità di elemosine e quote in denaro o in natura e del presidente (parroco del paese). Le riunioni plenarie avevano lo scopo di deliberare in merito alle spese, perlopiù finalizzate a migliorie e restauri dell’edificio , e ad eleggere il Maestro dei Novizi.L’Oratorio fu meta di pellegrinaggi da parte di fedeli della zona acquese, poiché era considerato un santuario.Ancor oggi, ogni 29 aprile , vi si svolge la solenne processione di San Pietro, durante la quale alcuni fedeli indossano l’abito originale della confraternita: cappa rossa e mantello verde.
Ecco il portale cinquecentesco, l'olio seicentesco (ancora da attribuire) della Vergine con il Bambino, e i santi Paolo e Pietro - da Verona, martire del secolo XIII - San Vincenzo Ferreri, evangelizzatore domenicano del Marchesato di Monferrato cui Melazzo apparteneva nel 1402, e San Guido, i dossali lignei settecenteschi dell'aula maggiore e gli armadi della sagrestia, la statua ottocentesca che si deve attribuire a Giovanni Battista Drago, di provenienza genovese, che data 1830, e poi due oli di Giovanni Garelli.
E proprio su queste due tele - una Ultima cena e la Lavanda dei piedi, datate 1888 - concentriamo la nostra attenzione, anche perché sono tra le poche opere sopravvissute (o identificabili) di un pittore che ha contrassegnato con la sua vivacità il nostro splendido Ottocento Acquese.
Non deve stupire questo interesse. Vero è che la costituzione o la rinascita della confraternita potrebbe datare già all'inizio del secolo XV, mentre nel Cinquecento i documenti attestano come il Visitatore apostolico imponga di lasciare le antiche cantilene (il gregoriano?) assumendo i canti di Milano. Ma le tracce ottocentesche di minusieri, orafi, pittori e scultori sono consistenti e restituiscono la matrice culturale di un tempo, specie dopo i ventennali restauri promossi da Don Tommaso Ferrari.
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